
Siamo davvero sicuri di conoscere i nostri clienti? E se la loro vita digitale fosse indipendente dal loro “sé”? Ci interessa sapere che cosa le persone comprano o perché le persone comprano?
Recalcitranti, eppure. Incorruttibili, eppure. Indisponibili, eppure. Eppure, cediamo. Adesso tocca a noi metterci in mostra. Senza filtri così come mamma ci ha fatto. Pare proprio impossibile farne a meno: impossibile mimetizzarsi in questa rivoluzione del racconto del sé che Cotroneo paragona a quella sessuale degli Anni ’60. Stimolati dall’urgenza frenetica proposta da una generazione di esibizionisti digitali che ininterrottamente spalma il proprio profilo dovunque sia possibile, iscrivendosi di getto a qualsiasi cosa richieda una login, «diluendo volontariamente il proprio senso di sé e il proprio ego, riempiendo internet di più informazioni possibili al riguardo» noi, i consumatori, transitiamo senza soluzione di continuità dalle vetrine a Windows. Dal desk al desktop. Dai tabulati ai tablet. Sempre di dati si tratta. Solo che questi dati sono accompagnati dalla scia silenziosa e al tempo stesso rumorosissima del proprio – appunto – sé.
Come dice perfettamente Zapelli: “In questo modo l’identità di sé, che si costruisce nella propria rappresentazione, si modula su condizioni e contenuti che non sono estratti dalla propria esistenza, che si sviluppano indipendentemente da ciò che si vive e si può vivere. Si è verificato un alleggerimento del fardello ingombrante che vincolava l’essenza di ciò che siamo all’esistenza di ciò che viviamo”. E quindi finalmente leggeri, liberati salvificamente da ogni pregiudizio morale verso le false necessità ci esprimiamo in un universo popolato di benvenuti intrusi, famosissimi sconosciuti, effimere passioni, affollatissime solitudini, utilissime inutilità compensando agevolmente la crescente indisponibilità economica con la convenientissima presenza. Commentiamo, votiamo, registriamo, linkiamo e likiamo, protestiamo, coinvolgiamo. Non costa nulla. Siamo un fiume in piena fatto da una massa apparentemente informe e invece individua(bi)le, distinguibile e binaria. La rincorsa alla ridefinizione (o alla conservazione) dell’individuo – imperativo del marketing sociale di oggi, ma già dogma di Jaques Tati 50 anni fa quando era tra i primi a percepre l’alienante annullamento dell’identità davanti al televisore – sembra trovare sfogo nelle briciole di bit lasciate per strada dal nostro cammino.
Tuttavia quanto questo “individuo” coincida con il nostro “sé” è ancora da chiarire, perché come dice bene Coupland: «essere un individuo comporta una gran mole di lavoro e gran parte degli esseri umani non è necessariamente tagliata per essere un individuo ed è molto più felice dispersa all’interno di un ambiente collettivo o di un sistema fideistico che esclude l’individuo”[1]. E non è una questione da poco per chi su questo panorama-target sta costruendo le proprie strategie di business. Così come non lo è per tutti i piazzisti di spazi digitali ossessionati dal vendere profili ai suddetti compratori e quindi a sostenere la validità intrinseca di quei profili (e di tutte le teorie di ROI correlate). Perché questa dicotomia? Perché la consapevolezza individuale del sé da un lato esalta gli ormoni dell’affermazione dell’io, dall’altro si scontra con la consapevolezza dello stare separando ciò che siamo da ciò che viviamo. Consapevolezza che si manifesta nel lungo percorso sul proscenio digitale e – si badi bene – non riguarda solo la paura della violazione “Prism-atica” della propria sfera personale, anzi è soprattutto una paura più estetica e superficiale dell’essere identificati e giudicati per “quel” sé anziché per il mio vero “sé”. Quella differenza, appunto tra “ciò che siamo e ciò che viviamo”.
Durante un intervento al Politecnico di Milano, davanti a una platea di ventitré/ventiquattrenni pronti a discutere la tesi ovvero pronti idealmente a gettarsi nel girone dei cercatori di un lavoro, facevo notare alla platea una cosa, almeno a me tanto ovvia quanto evidente: i cacciatori di teste, i valutatori, chiunque stesse selezionando qualcun altro per una posizione avrebbe scandagliato, prima di un qualsiasi colloquio vis-a-vis, la vita digitale del candidato. Apriti cielo. Si è innescato un dibattito di oltre un’ora su quanto questa pratica fosse superficiale, dozzinale, grossolana. Come a dire: “come mai potranno sapere chi sono davvero valutando il mio profilo digitale? Come potranno giudicarmi dal come (digitalmente) vivo anziché dal come sono. Cosa interessa loro se ho dato un like alla scuola di danza della fidanzata o alla pesca subaquea”. (Dico: “Ma ti piace la pesca subacquea?”. Risponde “Sì”. Rispondo “E allora cosa hai paura di nascondere?”).
Tra le tante citazioni che si potrebbero fare sul tema dell’immagine e della reputazione sociale prendo questa di Branson: «Giacca e cravatta in un ufficio sono solo un tipo di uniforme in un’arena dove le uniformi non sono più di alcuna utilità. In origine, probabilmente, giacca e cravatta erano il segno di chi poteva comprare (e mantenere) un pezzo di tessuto piuttosto costoso. Ora, però, in una cultura fortemente individualizzata e interconessa, i vostri risultati parlano da soli, online. La giacca e la cravatta sono evidentemente un anacronismo»[2]. Ma al di là di questa tutto sommato ovvia considerazione di Mr. Virgin (che tuttavia non so quanto Briatore capirebbe/sposerebbe) emerge la difficoltà del mantenere e gestire il proprio sé pubblicamente ed ad accettare il gioco che ci piace tanto quando lo giochiamo sulla sfera della vita digitale e che tanto ci spaventa non appena penetra la sfera dell’essere digitale. C’è da fare, a mio avviso, una chiara considerazione anagrafica: solo chi ha passato il quarantesimo parallelo di vita ha conosciuto quella stagione in cui se proprio non ha capito chi è, almeno ha capito chi non è e questo è un grosso aiuto a non vergognarsi del proprio sé e ad accettarlo in quanto tale senza eccessivi patemi. Peccato che gli over quarantenni non siano il target primario a cui i brand rivolgano la loro attenzione. Antonio Campo dall’Orto[3], pro domo sua visto che li vede come target a cui vendere qualcosa, li chiama «Millenials», li racconta come appartenenti a nuclei familiari benestanti e aperti perché gli fa comodo pensare che saranno naturalmente ricchi per poter pagare i brand che investiranno a suon di spot nelle sue televisioni. Secondo lui «elimineranno dal vocabolario la parola fallimento, sostituendola con successo, da ottenere grazie ad arguzia e intelligenza. Una generazione smart&fun».
Questi ragazzi, alla fine del mio intervento, li ho visti ossessionati – letteralmente – dall’andare il prima possibile a ripulire i propri profili (come se fosse davvero possibile) da pesche subacquee varie e like dati ad-minchiam a personaggi, eventi, storie magari non proprio edificanti. Li ho davvero spaventati eppure questo è il gioco che stiamo giocando. Quei like dati sono gli stessi che riceviamo in cambio per le nostre storie, le nostre fotografie, i nostri video. Come dice Cotroneo, «si è aperto un luogo di ascolto a cui nessuno potrà più rinunciare se non rinunciando a una parte importante di sé stesso»[4]. Cosa ci spaventa al punto dal farci sentire così in imbarazzo? Forse che non ci rappresentano davvero? E dunque: è la nostra vita o siamo noi? E cosa interessa al marketing? Il prodotto o il packaging? Il contenuto o il contenitore? Il sé o la sua rappresentazione? Io credo che la vera risposta sia evidente, ma nonostante quanto si voglia credere alle eccezionali prospettive offerte dalla dimensione sociale-digitale nella sua più ampia accezione non credo si sia ancora così vicini dall’avere quel sé impacchettato in una informazione pret-a-porter a disposizione per fare uno salto qualitativo nel dialogo con i nostri clienti/consumatori/end-user.
Per il momento ci dobbiamo accontentare di una sua, seppur sofisticata, rappresentazione fatta da una gustosa insalata di pattern, serie storiche, sentiment e analytics di varia ricchezza, profondità, accuratezza farciti di quei like-ad-minchiam di cui sopra ancora apparentemente ben lontani dal sé. Che potrebbe essere più che sufficiente agli scopi e alle tecniche attuali di marketing. Ma provate a seguirmi per un secondo: quando volete trattare un acquisto importante vi basta il rappresentante dell’azienda o volete parlare con il titolare? E allo stesso modo, quando voleste stringere un legame di fiducia serio con un vostro cliente, vi basterebbe parlare con il suo rappresentate o vorreste trattare con lui in persona? Distinguere il sé dal rumore di fondo prodotto dalla sua rappresentazione potrebbe essere la prossima sfida del marketing.
E non è detto che si riesca a vincerla tanto facilmente.
[3] Presidente esecutivo Viacom International Media Networks.
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